III

La premessa della formazione poetica del Metastasio è costituita significativamente dall’incontro fra il primo esercizio di improvvisazione, come ideale corrispondenza a quella essenziale presenza dell’«estro» di cui il teorico parlava nel passo ricordato delle note all’Ars poetica di Orazio, e l’educazione classicistico-razionalistica del Gravina e del Caloprese, la cui componente razionalistica era ben chiara nello stesso emblematico ricorso alla ragione ordinatrice che compare in alcuni versi improvvisati nella fanciullezza, citati dal Metastasio in una lettera all’Algarotti del 1° agosto 1751:

Da ragion se consiglio non rifiuti

ben di nuovo udirai nella tua mente

risonar que’ pensier ch’ora son muti.[1]

Lezione essenziale di cui il Metastasio conservò sempre alcune esigenze fondamentali: quella dell’organicità della favola contro la dispersione edonistica e musicale, quella di una destinazione didascalica e di inserimento dell’opera poetica in una direzione di costume e di moralità (donde il valore dato alle arie sentenziose come espressione corale di una saggezza collettiva), quella del componimento complesso e capace di uno svolgimento di favola contro la misura avara e costretta del sonettismo, quella di un linguaggio perspicuo e nitido filtrato attraverso l’esemplarità dei classici.

E soprattutto l’ideale di una totale verificabilità razionale (chiarezza e concatenazione) in cui lo scolaro del cartesianismo traduceva idee chiare e distinte in immagini altrettanto chiare e distinte.

Si può cosí intravedere, nelle stesse opere della prima adolescenza, la via seguita dal Metastasio fra una regolarizzazione dell’improvvisazione (le ottave del Concilio degli Dei) e lo sviluppo piú studiato, nel metro severo e discorsivo della terzina, di una tematica graviniana, esaltatrice di una saggezza eroica e di un didascalismo morale nutrito di concreti appoggi giuridici e filosofici: dalla Morte di Catone all’Origine delle leggi, alla piú tarda Strada della gloria del ’18 che, nell’epicedio dell’amato maestro, raccoglieva i frutti piú tipici di quella prima direzione piú da un punto di vista tematico che da quello del linguaggio eclettico e solenne, con prestiti da Dante, dal Petrarca dei Trionfi e dal Guidi.

Si tratta di componimenti assai goffi e faticosi in cui campeggiano apoftegmi tipicamente graviniani come l’esaltazione (nella Morte di Catone) dell’eroismo dell’anima illuminata dalla ragione e tesa platonicamente alla sorte celeste

(Ah che quell’alma cui ragione è duce,

non può giammai temer di quella morte

che al destinato fin la riconduce.

Anzi ella sempre l’aspre sue ritorte

romper si sforza in cui si trova oppressa,

e sempre aspira alla celeste sorte)[2]

e l’affermazione già ricordata della naturale presenza dello spirito divino nell’uomo che non ha cosí bisogno dell’intermediario sacerdotale:

Ciò ben sappiam che la divina essenza,

in cui tutti viviamo, a nostre menti

già del vero donò la conoscenza...

E poi, perché degg’io Giove superno

negli aditi cercar, se il trovo espresso

ovunque mi rivolgo, ovunque scerno?[3]

O (nell’Origine delle leggi) l’immagine del saggio illuminato dal lume interno[4]:

Il saggio vive sol libero appieno,

perché del bene oprare il seme eterno

dell’infinito trae dal vasto seno.

Egli discerne col suo lume interno

che da una sola idea sorge e dipende

delle create cose il gran governo.[5]

Mentre nella Strada della gloria la lezione del Gravina viene svolta soprattutto in una premessa morale di saggezza interiore ad ogni conquista di gloria che è molto tipica per il controllo, l’autodisciplina, la consapevolezza del Metastasio:

Noto prima a te stesso esser proccura,

preceda ogni opra tua saggio consiglio,

e poi lascia del resto al Ciel la cura.[6]

Ma su questa direzione già prima il Metastasio aveva cercato di inserire un tentativo piú chiaramente poetico di cui solitamente si ricordan solo il fallimento[7] e la grave ipoteca del soggetto trissiniano imposto dal Gravina: il Giustino.

In realtà chi vada a leggersi quell’opera dell’adolescenza metastasiana (scritta fra il 1712 e il 1714) troverà che, entro la direzione graviniana, rispecchiata nell’abbondanza di parlate politiche e sentenziose e nel Leit-Motiv della saggezza illuminata, si muovono già elementi della poesia metastasiana che ripugnano alla tragedia solenne e austera del Gravina e che, pur entro un linguaggio in gran parte guidiano e nella abolizione della musica piú sicura delle rime (sono endecasillabi sciolti interrotti da qualche settenario), fanno avvertire la spinta piú genuina di toni patetici e melodrammatici, specie nella piú congeniale e indagata figura femminile di Sofia[8]. Ed è nei monologhi di questa che vibra già il gusto della distinzione di situazioni di perplessità appoggiato all’uso replicato dei «forse», dei «chi sa», come nel monologo della scena terza del primo atto o in quelli che si susseguono in presenza di Fosca (che commenta in chiave di lieto fine prefigurato e di saggezza razionale:

Ogni tempesta

termina colla calma e il vostro duolo

avrà piacevol fine)

e culminano in una catena di dubbi e di autorisposte di chiaro suono metastasiano. O si legga la lunga parlata di Sofia (Atto IV, scena VI) con la decisione dell’avvelenamento:

Ingiustissimo fato, eccomi giunta

dove del braccio tuo vana è la forza.

Questa nera bevanda, in cui s’asconde

lo squallido rigor di tetra morte,

da questo sen farà partir la vita;

ma saprà toglier anche a un tempo istesso

dalla tua tirannia l’alma dolente?

No, non cred’io che in quanto il sol colora

piú mesta donna ritrovar si possa,

né di me piú meschina. Odio la vita;

né già lo posso amar, poiché divenne

alimento di pena, esca d’affanno.

Ovunque il guardo doloroso invio,

su le pietre, sul suolo, in cielo, in mare,

miro impresso Giustino (ahi vista atroce!),

dell’amor mio, del mio morir cagione.

Il miro aimè! qual su l’arene il vidi,

enfiato, umido, lacero e grondante

ancor il crin dell’infelice flutto,

aprir ver me le scolorite labbra,

e dirmi in tuono orribile e severo:

«Per te non vivo, ingrata, e tu non mori?»

Ahi, qual rigido gelo,

presago di mia morte,

dalla piante mi scorre insino al crine!

V’intendo, sí, v’intendo, irate stelle;

voi volete ch’io rompa ogni dimora

per girne in seno a morte: ecco, son pronta.

(in atto di pigliare il veleno)

Mio bellissimo sol, mia cara luce

che a mezzo il corso tuo giungesti a sera,

dalla sublime sfera ove ti aggiri

accogli tu con un benigno sguardo

della fida Sofia l’alma costante,

che incerta di trovarti ancor ti siegue.

Tu per trovarmi tanto mar passasti;

io per cercarti vo di vita a morte.

Oh Dio, potessi i giorni tutti gli anni,

che si dovriano alla mia verde etate,

cangiar colla tua vita; o quanto lieta

il vorrei far! Ma poiché il Cielo avverso

tanto non mi permette, perché forse

degno prezzo non son della tua vita,

a te li sacro e alla tua pura fede.

Altro, caro, non cerco

se non che lieto mi raccolga, e scorta

mi facci almen per lo cammino ignoto.

Se ciò non fai per fin che il sol si estingua,

andranne errando sconsolata intorno

della flebil Sofia l’ombra dolente.

Orsú si muoia... Oh Dio! Chi mi trattiene?

Eh che è vano timor... No, non ho core;

la man ricusa d’ubbidir la mente.

Questa è ben, crudo Ciel, pena maggiore

d’ogni altra che fin ora oppressa m’abbia.

Ma che? Sarà Sofia di cor sí vile

che di morir ricusi,

quando la morte un maggior duol le toglie?

Ah no, ciò non fia mai. Si beva, e questo

mortifero liquor spenga ogni affanno (beve).

Già la morte è nel seno. Almen pietosa

mi disciogliesse tosto

da questa luce infesta agli occhi miei!

Oh misera Sofia, come vivesti

felice allor quando non eri amante!

Troppo, ahi troppo godrei felice stato,

se nel mio petto Amor non mai regnava.[9]

Né mancano nel tessuto piú incerto e ricco di riflessi barocchetti, castigati in eloquenza guidiana, certe impostazioni del discorso patetico metastasiano che piaceranno al Leopardi:

Oh me infelice!

Queste son le mie nozze e i lieti giorni,

queste le pompe, questi i miei piaceri?[10]

Anche se spesso la vibrazione del patetico è surrogata (per immaturità di stile e inesperienza di vita) da forme piú volgari e goffe[11] e la nitidezza è intorbidata da difficoltà[12] e le arie-cori sono rigide e stentate.

È evidente che nel Giustino queste premesse di tendenze metastasiane combattono non solo con una immaturità centrale (il metodo del tormento patetico non riesce ad intrecciarsi e a sciogliersi mancando di una matura intuizione del rapporto fra la sorte individuale e il destino), ma con un linguaggio e una tecnica pesanti e magniloquenti, con un materiale linguistico legnoso ed arido, privo delle risorse musicali e dell’humus sentimentale che saranno tipiche del Metastasio maturo. E l’acuta nitidezza razionale, che contribuirà poi alla fusione di eleganza e semplicità delle opere maggiori, è ancor troppo sul piano apertamente sentenzioso e didascalico del Gravina, cosí come l’impeto patetico lotta con lo stoicismo atteggiato e i toni gravi e solenni del Guidi.

Sicché ben si capisce come, sulla via che condurrà (attraverso molteplici tentativi ed esperienze in cui tecnica e motivi interni si intrecciano e si commisurano lentamente) fino alla mèta dell’Olimpiade e del Demofoonte, fosse necessario non l’abbandono totale delle istanze graviniane, ma il loro provvisorio smorzamento (per una ripresa piú intima e originale e diversa) di fronte ad una nuova fase di sviluppo di qualità canore e immaginose, ad un piú libero esercizio di canto e di immaginazione che solo esternamente può configurarsi come il «tradimento» del Gravina e la rivincita del Seicento sullo scolaro di un’Arcadia solenne, contenutistica e didascalica.

In effetti già nel 1717, nel Ratto d’Europa, sulla via dell’idillio mitologico, il Metastasio, pur nella ricerca di tipo graviniano di una musica piú severa (endecasillabi sdruccioli in gara con esametri latini), si volgeva ad un’esperienza piú spontanea e libera di patetismo, di pittoricismo paesistico, di canto madrigalistico, che, recuperando le nuove letture di Ovidio, del Tasso, lirico, dell’Aminta, del Guarini e del Marino bucolico, confluiva in una spinta verso forme piú fluide ed abbondanti: corrispettivo di una sensibilità piú lieta ed edonistica che, nella storia dell’Arcadia in progresso, si viene piú avvicinando alle esigenze di tipo crescimbeniano attraverso un’esperienza piú complessa e importante per la maggior profondità di acquisizione letteraria e di personale scelta del Metastasio. Il quale proprio attraverso questo piú libero abbandono canoro e immaginoso, questo esercizio di sensibilità, meno costretta nelle castigate forme del severo classicismo graviniano, verrà successivamente riconquistando dall’interno di una complessa esperienza le esigenze razionalnaturali, la misura classicistica, le stesse istanze di moralità non astratta e di favola organica e «civile» con ben altra ricchezza e necessità che se egli avesse battuto unicamente la strada guidiana-graviniana che di per sé lo conduceva o all’intricata prova del Giustino o al ragionamento in versi dei componimenti in terzine prima ricordati.

E solo attraverso questa esperienza il Metastasio poteva, lavorando di scelta, di fusione, di assottigliamento su di una materia sensibile, linguistica, musicale e immaginosa piú abbondante e libera, avviarsi alla musica nitida, al patetismo controllato, all’incontro di semplicità e di eleganza, all’armonia dell’opera come corrispondenza di trama e di tessuto lirico che contraddistingue piú chiaramente il cammino dalla Didone all’Olimpiade e al Demofoonte.

La direzione idillico-mitologica che domina in questa fase – e che si ripercuote sino in componimenti «sacri» come Per la festività del Santo Natale (in cui la nuova èra aperta dalla nascita di Cristo è raffigurata come la vera età dell’oro[13]) – agevola questo sblocco della piú libera sensibilità metastasiana e il recupero di una zona di adiuvanti suggestioni poetiche che giunge sino al Marino bucolico e idillico, ma soprattutto si delimita nella fase tassesca e manieristica prebarocca con i loro presupposti classici e con il primo svolgimento della poesia tassesca nell’inclinazione musicale del melodramma rinucciniano.

Non dunque tanto una rivolta al Gravina in nome dell’appello barocco (con la conseguente ipotesi di un puro svolgimento barocco-Arcadia e barocco-rococò secondo la nota tesi del Calcaterra[14]), quanto una ripresa della zona tassesca e quasi un ritorno alle origini del melodramma (e dunque insieme un rifiuto degli sviluppi secenteschi di questo) per un nuovo e originale recupero delle sue origini poetiche[15] e per una nuova possibilità di risalire al dramma, all’opera organica attraverso l’incontro di immagini, di canto, di azione, nei suoi nuclei piú elementari, e di linguaggio piú fervido e libero: sulla base di una riconquistata felicità naturale, di un Eden idillico-mitologico in cui far lentamente rifiorire lo sviluppo dei sentimenti e della psicologia dei personaggi piú «naturali» e «poetici» di quanto non potesse avvenire sulla via troppo costruita e intellettuale della tragedia graviniana o degli abbozzi guidiani.

Si rilegga già il Ratto di Europa e in una tendenza, comune al Rolli, di maggior rappresentazione sensibile, di figura e canto (poi ristretta a prevalenza di situazioni e canto per scelta, non per aridità, e per scelta personale e storica coerente alle direzioni fondamentali dell’Arcadia romana con cui il Metastasio viene ora collaborando), si avvertirà, di fronte al Giustino, il piú libero abbandono e alla descrizione idillica[16] e, nel suo seno, allo sviluppo del patetico ancora involto nella rappresentazione sensibile piú che nel parlato:

Poiché rinvenne, come pietra immobile

parsa saria; ma i venticelli e l’aure

talor la chioma e ’l sottil velo scuotono.

Come viola è il volto esangue e pallido;

non battono le palpebre, e gli occhi tumidi

dal grave pianto stanno immoti e stupidi;

e per la tema che l’affligge ed occupa,

con spesso e grave moto il cor le palpita.[17]

Che può parere un passo indietro rispetto a certe parlate di Sofia nel Giustino, mentre implica un risviluppo del moto patetico, che culmina nel sintomatico verbo metastasiano («palpita»), entro una capacità immaginosa e rappresentativa maggiore, di cui si alimenterà, tutto tradotto nella parola recitativa, il disegno patetico metastasiano.

Poi, usufruendo del succo delle nuove letture non-graviniane, dagli idilli come il Ratto di Europa e del piú aperto esercizio melodico della Primavera del 1719 (che traduce insieme una moralità idillico-edonistica[18] e un gusto fresco e nitido di incontro di paesaggio e di sentimenti[19]), le azioni teatrali, cantate e serenate, gli epitalami del 1720-1723, vengono prolungando questo esercizio di espansione musicale e immaginosa, di colorismo madrigalesco, e insieme lentamente assicurando al suo centro uno sviluppo di patetismo melodrammatico che si coagula in situazioni, in personaggi, in linee di parlate sempre un po’ floride e gorgheggianti, ma progressivamente alimentate di una sentimentalità piú precisa e volta a funzione piú attiva nell’economia della favola.

Con un recupero chiaro, entro la letteratura, di elementi vivi di sensibilità e sentimentalità che differenziano la formazione del Metastasio dalla via piú arcaica e moralistica dello Zeno, in cui gli elementi musicali e patetici son come piú aggiunti e meno fusi nella loro qualità piú artificiosa e spesso barocchetta.

Il Metastasio opera nel vivo della sensibilità e della sentimentalità del suo tempo e cosí si spiega poi il vivo successo della Didone in cui la corrispondenza fra il poeta e il suo pubblico fu piena, assoluta. E in cui insieme si preparò la base dello sviluppo melodrammatico metastasiano, che procede con una scelta sempre piú intransigente e sicura degli elementi costitutivi di un’opera che – nelle sue stesse caratteristiche di organicità, armonia, circolarità e vibrazione patetica, di dramma a lieto fine e di rappresentazione della vitalità lieta e patetica, saggia ed eletta, media ed aristocratica – traduce originalmente le aspirazioni piú intime dell’epoca arcadico-razionalistica. Quali erano già anticipate dal sonettismo melodrammatico dello Zappi e della Maratti e dal confluire piú coerente di una Weltanschauung di lieta e patetica fruizione della vitalità, di moralità e di socievolezza con le inerenti esigenze del dialogo e della linea costruttiva e scenica vibrante e nitida, melodica e razionale, briosa e lucida, animata e sospesa per una piú piena mèta di soddisfatta conclusione razionalnaturale nel porto idillico del lieto fine e con l’esigenza di un’opera intera che recupera in teatro le piú vive esperienze della lirica contemporanea.

Attività che trova il conforto (fra esercizio forense mal tollerato e gioiosa tentazione poetica) nella calda vita napoletana che rimarrà sempre, sino ai piú tardi anni viennesi (si ricordino le lettere al Farinelli e le compiaciute inserzioni di battute napoletane rievocate come segno patetico e lieto della gioventú), la zona fervida giovanile, la riserva di vitalità piú esercitata e vissuta, di «popolarità» e di vita teatrale piú autentica. Fra lo stimolo vivo della musica, il contatto sollecitante dei comici e dei cantanti, e lo sviluppo e l’utilizzazione delle nuove letture.

Si apra cosí l’Endimione (1720) e si avrà l’impressione di un primo anello in questo processo di risalita al melodramma attraverso prove inizialmente piú composite e brevi («azioni teatrali»), sul terreno piú propizio e facile della situazione mitologica e boschereccia (come era avvenuto agli inizi del melodramma vicino alla favola pastorale). Piú forte la presenza di battute comiche un po’ pettegole, e ancor pieno l’abbandono al canto (e al senso edonistico dell’amore senza tormento[20]) nella sua piú chiara ascendenza madrigalistica cosí evidente nell’apertura dell’azione teatrale:

Nice, Nice che fai? Non odi come

garriscon tra le frondi

de’ floridi arboscelli

i mattutini augelli,

che al rosseggiar del Gange

escono a consolar l’alba che piange?

Dove è rilevabile il colorito canoro e paesistico (ma senza nulla di veramente concettistico e senza il gorgheggio secentesco), l’incontro prevalentemente tassesco[21] nell’impasto sentimentale-musicale-immaginoso cosí fluido e liquido che domina in tutto il componimento. Da cui tutto scorre facilmente in un paesaggio idillico che viene riducendosi in emblematico sfondo di melodramma e con un’azione tracciata soprattutto dalla linea musicale-coloristica-sentimentale entro cui il patetico preme con impeti ben commisurati alla intera atmosfera in cui si pronuncia. Come può vedersi in questo breve dialogo tra Endimione e Diana[22] nella cui risposta sembra albeggiare – ma in un raccorciamento maggiore quanto a linea patetica e in un maggior contesto di immaginosità e musicalità colorita – un movimento patetico alla cui intera esplicazione il Metastasio giungerà nell’Artaserse, nella sua piena maturità:

Endimione:

Mio nume, anima mia

poiché il tuo cuore in dono

con sí prodiga mano oggi mi dài,

non mi tradir, non mi lasciar giammai.

Diana:

Io lasciarti? Io tradirti?

Per te medesmo il giuro.

O de’ conforti miei dolce tormento,

o de’ tormenti miei dolce conforto:

sempre, qual piú ti piace

a te sarò vicina,

cacciatrice mi brami, o peregrina.

Anche negli Orti Esperidi il bisogno di pieno abbandono edonistico è francamente affermato sia nella tematica (amore ricambiato e felicità del vivere), sia nella schiettezza del colorismo melodico appoggiato al madrigalismo ed espanso floridamente, come in questa parlata di Venere innamorata:

Zeffiro lusinghiero,

che per l’ameno prato

vaneggiando leggero

lo sparso odor raccogli,

e le cime de’ fiori annodi e sciogli;

fiumicello sonoro

che, scorrendo felice

la florida pendice,

il platano e l’alloro

grato con l’onde alimentando vai,

e, per l’ombre che godi, umor gli dai;

vaghe piagge odorate,

ombre placide e chete,

per me senza il cor mio belle non siete.[23]

Ma la sensibilità che già anima sottilmente l’impeto melodico e il compiaciuto vagheggiamento degli elementi pittorici e canori del paesaggio partecipante al motivo erotico fondamentale trovano già, sulla direzione appunto di una sensualità sentimentale, distinzioni psicologiche acute ed attente nella voce esperta di Venere.

Non temer di mia fede,

ché la tema è fallace, e mio l’affanno,

siegui il felice inganno; e se talora

agghiaccia sul mio labbro

qualche tenero senso il mio timore,

ti parlerà per le pupille il core.[24]

E mentre si apre il giuoco iterativo e distintivo delle coppie innamorate che sarà tipico del Metastasio (qui Venere e Adone, Egle e Palemone), già qualche scena piú costruita melodrammaticamente si annoda nello schema sapiente dell’intreccio degli amori delle due coppie. Come l’abile contrappunto fra le ardenti assicurazioni di Adone a Venere e la sommessa costatazione di Egle a Palemone impersuaso, che teme un legame d’amore fra Adone ed Egle di cui è innamorato[25].

O di quest’alma fida

unica speme, unica fiamma e cara,

dalle tue luci impara

di belle faci a scintillar il cielo.

Per te dal secco stelo

i gigli e le viole

sorgon di nuovo a colorar le spoglie.

Per te novelle foglie

veste il vedovo tronco, e al dolce lume

di tue pupille chiare

ride placido e cheto in calma il mare.

E tu che sei cagione

di letizia e piacere

alla terra, alle sfere, ancor non scacci

l’importuno dolor che al tuo sembiante

la porpora gentil bagna e scolora?

Egle: (Non odi Palemon?)

Palemone: (Non basta ancora)

Venere: Per te, dolce mia vita,

sollecita e dolente

quest’anima fedel pace non sente.

Se d’un chiaro ruscello

guizza il pesce fra l’onde,

se un lento venticello

mormora tra le fronde,

a quel moto, a quel fiato

palpita questo core innamorato;

e tutto par che sia

oggetto di timore all’alma mia.

Se tu non mi abbandoni,

se a me serbi quel core,

non so che sia timore;

scuota Marte a sua voglia il brando e l’asta.

Egle: (Non basta, Palemone?)

Palemone: (Ancor non basta).

E si noti come nelle parlate di Venere l’ampiezza dell’espansione non tolga che la linea espressiva è sicura e sorregge il carico delle impressioni colorite e canore già con quella saldezza che poi troverà piú adeguata forza nitida nella sobrietà non prosastica del linguaggio metastasiano, che sembra aver limitato e riassorbito (non abolito) il succo di questa esperienza di sensibilità poetica e immaginosa attraverso un filtro purificatore che ridurrà poi immagine e canto alla sicurezza ed essenzialità espressiva e patetica di certe delicate parlate dell’Artaserse.

Mentre nella «serenata» Angelica (del 1722) – che è interessante anche come riprova della prevalenza tassesca nella formazione piú vera del Metastasio in questa specie di tassizzazione dell’argomento ariostesco[26] – entro questo linguaggio melodico-coloristico l’elemento del recitativo espressivo e attivo viene prevalendo e arieggiando già tipici modi del recitativo metastasiano

(Angelica: Orlando! o quanto in vano

ricercato da me giungi opportuno)[27]

e il personaggio di Angelica, con la sua civetteria e il suo patetismo, viene sempre piú costituendo un progresso sulla via del personaggio femminile metastasiano che culminerà (in questa fase) in quello di Didone.

Come poi nella Galatea, del 1723, cosí ricca ancora di espliciti richiami di poeti adiuvanti (Poliziano, Sannazzaro, Ariosto, Tasso)[28], il linguaggio melodrammatico si fa sempre piú strada, sia nella forza di suggerimenti di sfondi poetici scenografici

(colà ne vieni

dove quel cavo scoglio

sovra il placido mar curva la fronte

e il tranquillo Oceàn fa specchio al monte)[29]

sia, e piú, nella sua capacità di graduata e complessa definizione di stati d’animo (con qualche inarcata increpatura di rilievo barocchetto[30]), sia nella delineazione della parlata con tipici moduli di dialogo che saranno spesso essenziali alla forza tensiva del tono colloquiale metastasiano: come nella parlata di Polifemo[31] con la ripetizione e l’intensificazione del «dille» e del colloquio rivolto, attraverso un’interlocutrice presente, al personaggio assente. Che è mezzo tipico di una piú tenera e struggente tensione di colloquio amoroso volto a far vibrare, in un’atmosfera di assenza-presenza, la lontananza della persona amata, la difficoltà del varco sino a lei.

È qui la base piú vicina alla forza nuova e geniale della Didone con la quale il Metastasio interrompe il parallelo esercizio, negli Epitalami (1720-23), di una lirica puramente musicale e descrittiva in cui pure si avverte la tensione di melodia in funzione di rappresentazione-azione: sicché sarebbe erratissimo rimpiangere una via madrigalistica interrotta per pure esigenze «teatrali», laddove queste vengono richieste dall’intimo dell’esperienza metastasiana e maturano e configurano, in ben altra prospettiva di capacità, la vena piú canora patetica che nella fase madrigalistica può cogliersi.

* * *

La Didone abbandonata nasce al culmine di questa tensione melodico-patetica e la risolve in un impeto di costruzione intera, dentro un momento di eccezionale fervore vitale e creativo sollecitato dalla lieta vita napoletana, dallo stimolo del vivo personaggio dell’attrice, la Romanina (la Didone è infatti l’opera piú legata ad un pubblico e ad un’attrice)[32], confermato e chiarito da quella presa di posizione affermativa e polemica che è il brillantissimo intermezzo L’Impresario delle Canarie. Il quale, mentre espande intorno all’opera le componenti di letizia e di comicità che si involgono nelle stesse sue pieghe melodrammatiche e la caricano di una implicita tendenza alla commedia (senza perciò che essa in commedia si risolva, come parve troppo facilmente al De Sanctis), le assicura una base di consapevolezza della propria novità nell’ambito della vita e del costume teatrale del tempo.

Sicché questo intermezzo, che è di per sé cosa piacevole e viva, e premessa di una linea comica che il Metastasio sacrificò nel proprio svolgimento, riattingendola momentaneamente solo nella deliziosa, ma piú fragile e disegnata commediola Le cinesi, testimonia la forza e la consapevolezza da cui sorge la Didone e ne assicura la storicità nel pieno della vita teatrale contemporanea, nella dimensione teatrale di un tempo che nel teatro risolveva le sue esigenze, di realtà e di sogno, di dialogo e di calda socievolezza, di interesse per i rapporti umani e sentimentali nella loro irresistibilità e nel loro educato controllo, nel loro rifluire in lezione di saggezza e in incentivo di vitalità.

E si ricollega a quel tipo di intermezzo comico che, nella satira lieta della vita teatrale, coglieva insieme un oggetto della tensione comica moderna (commedia di costumi contemporanei e non semplice ripresa della commedia cinquecentesca) e un aspetto della riforma arcadica da cui piú tardi, e ad un nuovo e piú forte livello di mentalità e di civiltà, trarrà il suo primo spunto la riforma goldoniana. Donde la consonanza con la piú grottesca Dirindina del Gigli e con lo stesso Teatro alla moda del Marcello (e piú tardi con l’Impresario delle Smirne e con i primi schemi comici del Goldoni come la Cantatrice e la Pelarina), nonché con le stesse pagine piú vive della polemica e delle proposte del Muratori nella Perfetta poesia, ma in un concreto esercizio teatrale che dimostra di per sé la vocazione scenica del Metastasio e quella piú esplicita maturazione teatrale esplosa sulla base piú sommessa e vaga dei precedenti tentativi teatrali.

E, al centro della satira dell’impresario-poeta galante, della cantante presuntuosa e rozza, della madre mezzana (insomma dell’equivoco mondo teatrale, che era già una delle ragioni della decadenza teatrale e uno dei punti della polemica artistico-morale dell’Arcadia), spuntano, vivi e mediati artisticamente, elementi chiari della polemica arcadica trasferiti sul piano teatrale. Polemica anzitutto contro le «arie di bravura», dispersive ed assurde, in un contesto organico, di cui il Metastasio dà un esempio geniale sull’aria della «navicella» e della «farfalletta»:

La farfalla che allo scuro

va ronzando intorno al muro,

sai che dice a chi l’intende?

«Chi una fiaccola n’accende,

chi mi scotta per pietà?»

Il vascello e la tartana,

fra scirocco e tramontana,

con le tavole schiodate,

va sbalzando, va sparando

cannonate in quantità.[33]

Dove ben si delinea, in questa forza elastica e comica, nella chiara utilizzazione di un linguaggio bislacco e convenzionale, nella freschissima ilarità e nella mimica festosa e dinoccolata, la satira persuasa del melodramma barocco con la sua caotica mescolanza di toni tragici e comici, con la sua funzione casuale di esercizio canoro per i «virtuosi», con la sua improbabilità di vicenda e la sua indecifrabilità e incoerenza di discorso poetico. Sicché il libretto decadeva ad accozzo di motivi e di parole senza senso e senza capacità espressiva, il recitativo e le arie si giustapponevano senza necessità interna, inutili a chi li ascolta[34], offesa alla serietà poetica del melodramma, concessione al malgusto e alla frivolezza di un pubblico ineducato che non apprezza il «recitare» e chiede solo pezzi di bravura di canto per le virtuose interessatamente ammirate[35].

Ciò che rivela le preoccupazioni chiaramente arcadiche del Metastasio e conferma, a questo punto essenziale, la sua presa di coscienza della riforma del melodramma dall’interno delle sue condizioni: accordo necessario fra arie e recitativi, forza espressiva dei recitativi ed espressività anche delle arie, organicità dell’opera e, ripeto, suo intero impegno espressivo. Il tutto animato da voci e personaggi comici, che, senza ausilio didascalico, si muovono e si caratterizzano comicamente: il Nibbio, con la sua goffaggine volgare e le sue pretese di galanteria «platonica» (l’impresario «che pieno di rispetto, / modesto e melanconico, /sempre d’amor platonico / per lei sospirerà»[36]), e Dorina còlta nel suo affaccendarsi autoritario intorno ai sarti e alle cameriere che le misurano il vestito per la recita («piú corta questa parte»; / «tantin piú, per favore»), nel suo buon senso, stupito dalle smargiassate del Nibbio e incapace di reagire pienamente alla convenzione, nella sua legalistica e autorevole richiesta di patti di onorario fra termini tecnici ed oggetti gustosi

(E che, oltre l’onorario, Ella mi debba

dar sorbetti e caffè,

zucchero ed erba thè,

ottima cioccolata con vainiglia,

tabacco di Siviglia,

di Brasile e di Avana,

e due regali almen la settimana),

sino al finale[37] in cui il duetto a versicoli, puntati sul suono comico del verso tronco, risolve pienamente la messa in azione di questi due personaggi «buffi» con una accelerazione festosa, uno scatto comico che già garantiscono le eccezionali qualità artistiche del Metastasio «1724» e, pur negli ideali arcadico-melodrammatici che guideranno il suo sviluppo dalla Didone in poi, le qualità di freschezza di un singolare momento di esplosione poetica di tutto il Metastasio, con una vivacità, una spregiudicatezza, una mobilità e fertilità di motivi e di risorse che in seguito egli educherà, condurrà pazientemente e tenacemente in una direzione piú profonda, ma meno smagliante e impetuosa.

È il momento della scoperta della propria forza inventiva e teatrale, del proprio gusto di personaggi mobili e attivi, fra scena e vita, e si capisce bene come il Goldoni abbia considerato come esemplare la Didone, la «divina Didone», come dice il suo portavoce Ottavio nel Teatro comico respingendone con sdegno le contraffazioni e le parodie, sentendone la vitale forza teatrale e la posizione di inizio di tutto il teatro settecentesco proprio perché essa era opera viva, traduceva impetuosamente esigenze vive del tempo in personaggi e azione, con minore discriminazione di tono (che sarà essenziale nella scelta successiva del Metastasio), ma appunto perciò piú libera e piena.

E certi personaggi (se si esclude il piú atteggiato ed esemplare Enea, che poi viceversa è fondamentale per la «perplessità» metastasiana, ma in modi anch’essi eccessivi e a lor modo corrispettivi di questo momento di scoperta delle proprie tendenze essenziali) hanno un che di piú risentito e di piú vivace, di piú mobile e di piú espanso pur entro la stilizzazione elegante e gentile che li profila già nel passo minuettistico e nel miniaturismo nitido e lucido che andranno poi prevalendo nella misura melodrammatica. Jarba, barbarico e utilitaristico, Selene con la sua figura piú tenue, femminile e malinconica, di patita dell’amore e di «anima bella», che tace e soffre con tutta la vivacità del risentimento della sua situazione; Araspe, generoso e guerriero; Didone, eroina, dama ed attrice, hanno una carica vitale indiscutibile, una tipicità individualizzata che si traduce nelle battute energiche e rapide, volitive (si pensi a Jarba quando vuol far uccidere Osmida), e si fonde con lo slancio ritmico di tutta l’opera. Anche se questa, diversamente dal calcolo piú sicuro delle opere successive, è meno saldamente misurata ed armonica nel riflettersi in tutti i personaggi dell’essenziale tema del destino e delle sue fluttuazioni sino al lieto fine: che qui è surrogato dai modi piú scenografici e grandiosi con cui il rasserenamento finale compare come la calma del mare (e della sinfonia che ne esprime le condizioni[38]), che si ricompone dopo lo slancio rumoroso della tempesta e dell’incendio adibiti a tradurre la tragicità meno convincente della morte di Didone.

Ecco: proprio qui si può misurare la posizione della Didone, premessa esuberante del melodramma metastasiano, ma opera tutt’altro che definitiva, in certo senso abnorme rispetto alla norma e al modulo del melodramma «perfetto» che il Metastasio intese creare negli anni romani e nei primi anni viennesi.

La Didone è meno fine ed eletta, meno armonica e coerente, priva della sigla essenziale del lieto fine, ma, nella sua acerbità (che si riscontra poi bene negli sbalzi di tono e di linguaggio), vitale e vibrante, esuberante persino, sia nello slancio della protagonista, sia nella rapidità della vicenda, sia nella stessa «perplessità» di Enea che è pure, a suo modo, la realizzazione di un tipico stato d’animo del mondo poetico metastasiano qui portato all’estremo e fino all’involontaria comicità del tipico «eroe» metastasiano.

Cosí come piú forte ed aperto è l’urto fra i personaggi, il chiaroscuro delle loro qualità, il rilievo della loro tipicità, mentre in seguito i personaggi verranno piú finemente sfumati e piú commisurati fra loro in una comune omogeneità di base, con un prevalere della linea sottile e resistente costituita dalle loro reazioni e fluttuazioni di fronte alla vicenda guidata da un destino estroso e alla fine pacificatore, che nella Didone è meno variegato e screziato, piú esso stesso fissato in una fondamentale svolta: la imposizione del fato e degli Dei ad Enea di lasciare Cartagine. Anche se soprattutto la forza risentita di Didone sarà premessa essenziale alle piú delicate, ombrose figure delle Cleonici, delle Aristee, delle Dircee e Creuse che hanno pure elementi di nobiltà risentita e di rilievo personale e una comune base di femminile imperiosità e volubilità.

Ma certo il personaggio di Didone ha uno spicco risoluto fra gli altri personaggi, predomina su tutti, assorbe in sé la forza maggiore del melodramma, motivando insieme il carattere di impeto centrale di quest’opera e il suo limite di squilibrio rispetto all’armonia e alla proporzione dei melodrammi dei primi anni viennesi.

Non direi dunque che la Didone costituisca l’acme della poesia metastasiana con l’inerente falsa valutazione delle opere successive come deviazione e decadenza da questo tipo di melodramma piú risentito e concentrato nel personaggio centrale, che cosí di fatto si perde tutto il senso della poesia metastasiana e delle sue vere mète di armonia e di sviluppo piú molteplice e insieme omogeneo.

La differenza esistente fra Didone e i capolavori della maturità (differenza poi da ribadire nella minore fusione del linguaggio, ancora troppo aperto a tracce tassesche e guidiane meno assimilate, a sbalzi fra eletto e prosastico, a urti fra recitativi piú energici e arie sin troppo canore) va calcolata, in un diagramma evolutivo, come premessa di successivo lavoro di armonizzazione e di piú minuta complessità e insieme come carattere di esplosione della scoperta metastasiana del suo melodramma: donde la singolare freschezza e insieme acerbità della Didone in cui, fra l’altro, il Metastasio, contro i teorici arcadici, riaffermava la preminenza del tema amoroso come centro vivo della sua ispirazione e della tensione piú schietta del suo tempo, come punto di appoggio anche alle notazioni eroiche e bellicose che in altre tendenze piú velleitarie dell’epoca dovevano costituire l’ossatura stessa del dramma. Tutto qui è abbondante ed espanso, piú forte l’impeto iniziale dei personaggi e del loro tipo, piú abbondante il canoro, piú risentiti gli atteggiamenti e la mimica delle figure, ma insieme, ripeto, piú sproporzionato è il disegno generale, meno funzionante la linea del destino e delle reazioni, meno sottile l’impegno e lo scavo psicologico-espressivo, meno fuso il linguaggio drammatico-melodico e l’organicità recitativo-aria.

In questa sua singolare realtà di opera di apertura (che doveva apparire al pubblico, come di fatto era, una geniale interpretazione di esigenze cosí a lungo risolte in parziali realizzazioni sonettistiche, canzonettistiche, drammatiche e musicali) spiccava soprattutto il personaggio della protagonista, dotato di una tale ricchezza di connotazioni classiche e moderne, eroiche, regolari e insieme borghesi e realistiche (dietro c’era l’esemplare virgiliano, cosí trasformato settecentescamente da superare ogni semplice calco) che esso costituisce anche un certo anticipo delle figure femminili goldoniane nella loro volitività, nella loro capricciosa imperiosità, e realizza appieno l’incontro di qualità alte, regali, non mediocri («superba e bella», «son regina e sono amante»), di aspetti della bellezza, della passione, del dominio dell’amore invincibile e «naturale» («amore e maestà non vanno insieme»), della fragile femminilità («alfin femmina e sola»), di finzione e rilievo teatrale e di verità umana, di analisi dei sentimenti e della loro proiezione attiva in una sintesi trascinante poetica e storica.

Personaggio davvero indimenticabile (e tale da costituire la base di un ideale tipo femminile per tutta un’epoca), esso è contraddistinto anzitutto da una forza personale viva nell’imperiosità come nella coscienza della propria dedizione amorosa

(Che a te non pensi?

Io che per te sol vivo? Io che non godo

i miei giorni felici

se un momento mi lasci?),[39]

baldanzosa, irruente e sicura (come nello scontro con Jarba nella quinta scena dell’atto primo), dotata di una violenza di sarcasmo («veramente non hanno / altra cura gli dei che il tuo destino», XVII, I), volubile e fulmineamente trapassante dall’odio piú intenso all’amore piú appassionato[40], tutta impeti risentiti sino alla finale sfida agli Dei:

Che Dei? Son nomi vani,

son chimere sognate o sono ingiusti.

e poi presa dall’orrore della propria empietà e dalla desolazione del proprio abbandono.

Mentre la pallida figuretta di Selene, la patita di amore, l’altruistica vittima di un amore taciuto, replica la tensione amorosa di Didone in un controcanto melodico, sospiroso, pieno di equivoci e di sottintesi trepidi, in un echeggiamento piú sommesso, e pur contribuisce ad espandere il senso poetico dell’amore invincibile[41] e prepara quel gusto di intreccio di amori non corrisposti che sarà pimento essenziale di tanti melodrammi successivi. Ma proprio, secondo la natura della Didone, nettamente sottoposta all’attrazione della protagonista di cui riecheggia la situazione nelle sue battute di parentesi dolenti e flautate:

Se abbandoni il tuo bene

morrà Didone (e non vivrà Selene).[42]

E sotto l’aperto dramma di Didone cela il suo, mai direttamente espresso agli altri personaggi, riferendo il suo pianto alla propria identificazione affettuosa con la sorella[43], fino a situazioni giuocate con rischiosa abilità sull’equivoco ripetuto di una sua espressione diretta ad Enea e due volte riassorbita nella sua qualità di portavoce di Didone:

Selene:

Come tra tanti affanni,

cor mio, chi t’ama abbandonar potrai?

Enea:

Selene, a me «cor mio»?

Selene:

È Didone che parla e non son io.

Enea:

Se per la tua germana

cosí pietosa sei,

non curar piú di me, ritorna a lei.

Dille che si consoli,

che ceda al fato e rassereni il ciglio.

Selene:

Ah no! cangia, mio ben, cangia consiglio.

Enea:

Tu mi chiami tuo bene?

Selene:

È Didone che parla e non Selene.[44]

Battuta che rimanda a un certo gusto dell’«equivoco» ancora forte nel Metastasio, che poi userà di simili espedienti in maniera sempre piú sottile e misurata e che ora li presenta con un piú energico e scoperto piacere della propria abilità.

Cosí come egli chiaramente qui punta piú decisamente sull’eterogenità del personaggio «barbaro» Jarba-Arbace e sulla radicale perplessità di Enea.

Jarba è personaggio piú sbozzato nervosamente e porta nell’opera una voce di basso e un colore scuro adoperato per un piú aperto giuoco di contrasto di fronte al delicato mondo di toni e di ideali arcadici degli altri personaggi (e specie dell’«anima bella» Araspe che fa da pendant piú smorto a Selene):

Eh! che virtú! Nel mondo

o virtú non si trova,

o è sol virtú quel che diletta e giova.[45]

Di fronte alle ragioni di un mondo cosí diverso dal suo[46] si impone con una caratterizzazione del «barbaro» che tornerà piú volte nelle opere metastasiane fino ad una sorta di involontario primato di «buon senso» nella voce dell’africana Barce di fronte alla virtú assurda di Regolo, come quando ripaga, con veloce comando di morte, il tradimento, a suo favore, di Osmida, piccola intermedia figura di machiavellico a metà, recuperabile alla virtú dall’attrazione generosa di Enea: con una scena[47] di notevole efficacia teatrale nella velocità delle battute di Jarba, nella sua volitività decisiva e senza ombra di «perplessità».

Mentre Enea è l’eroe piú «metastasiano» nel senso deteriore della parola, ma insieme il piú significativo nell’impianto di quella «perplessità» che costituirà la linea di arricchimento della poesia metastasiana quando si commisurerà piú intimamente ad un mondo di trepidazione, di complessità sentimentale ed espressiva sullo sfondo del destino. E questo qui si presenta in forme troppo scoperte di un comando che egli troppo facilmente accetta reagendovi in un disegno patetico-riflessivo portato ad una esasperazione emblematica, non sorretta da un giuoco interno-esterno piú minuto e scavato.

Voglio dire che egli è, certo, paradigma dei tanti personaggi metastasiani, ma in forma piú esterna e senza la densità personale e patetica che vive essenzialmente in Didone, nel personaggio che assorbe troppo egoisticamente la forza sentimentale e poetica del Metastasio in questa prima manifestazione della sua poesia.

Egli è il personaggio di un vano «pur troppo»[48] (la forma avverbiale che avrà altra forza nei drammi maturi e che passerà all’Alfieri in un ben diverso atteggiamento tragico-esistenziale di cui pure, a suo modo, il Metastasio anticipa, in forme lievi e troppo facilmente rasserenate, la significatività elegiaca di fronte ad un destino nelle sue apparenze turbatrici ed avverse), il personaggio che incarna il contrasto fra amore e dovere, fra passione, virtú «eroica», e adesione ai voleri superiori degli Dei, senza la possibilità di quella conciliazione finale che esalta nel Metastasio maturo il trionfo di natura e ragione, di disegno provvidenziale e di diritti del cuore, e dunque in una via totalmente tragica che, a ben guardare, era una via chiusa per la vera poesia metastasiana. Sicché il personaggio risulta tanto piú schematico e, mentre afferma una situazione fondamentale per il «cursus» melodrammatico, la blocca in un diapason senza risoluzione e senza varietà intima, la conduce sino ai suoi esiti involontariamente comici (satireggiati poi dal Manzoni) in quella scena diciottesima del primo atto che è pure, a suo modo, magistrale per il primo dispiegamento, per eccesso, della «perplessità» metastasiana e per il raccourci (ma troppo ravvicinato, serrato in una scena) dell’ondeggiamento, della fluttuazione della volontà presa fra il cuore e il dovere, fra la natura e la ragione:

E soffrirò che sia

sí barbara mercede

premio della tua fede, anima mia!

Tanto amor, tanti doni...

Ah! pria ch’io t’abbandoni,

pèra l’Italia, il mondo,

la mia fama sepolta,

vada in cenere Troia un’altra volta.

Ah! che dissi! alle mie

amorose follie,

gran genitor, perdona: io n’ho rossore.

Non fu Enea che parlò, lo disse Amore.

Si parta... E l’empio Moro

stringerà il mio tesoro?

No... Ma sarà frattanto

al proprio genitor spergiuro il figlio?

Padre, amor, gelosia, numi, consiglio!

Se resto sul lido,

se sciolgo le vele,

infido, crudele

mi sento chiamar.

E intanto, confuso

nel dubbio funesto,

non parto, non resto,

ma provo il martire

che avrei nel partire,

che avrei nel restar.

Sicché in realtà la figura di Enea serve soprattutto alla figura piú sinceramente tormentata di Didone, ricca di affetti e di una psicologia piú media ed umana che il Metastasio meglio coglieva, soprattutto ora, nel personaggio femminile, insaporito e rilevato dalla sua condizione regale, ma alla fine riconosciuto soprattutto nella sua fragilità e nella sua energia passionale.

Insomma la Didone è opera da considerare come impianto e scoperta della dimensione melodrammatica, ispirata, nuovissima (tale da imporre un’immagine nuova di poesia ad un pubblico che vi aderí entusiasticamente), nata da una sollecitazione di tempo, di costume, di vita teatrale (in cui la funzione della Bulgarelli dové essere molto cospicua con un eccesso quasi di adeguazione fra personaggio ed interprete), ma, rispetto al cammino lungo del Metastasio, diseguale e come troppo scoperto nelle sue novità tecniche e poetiche, bisognoso di un esercizio e di un’applicazione piú misurata e complessa.

Prenderla per il capolavoro unico del Metastasio significa precludersi la comprensione del suo sviluppo successivo e la sua stessa opera di educazione del pubblico, che nella Didone trovava una risposta esuberante alle proprie esigenze e al proprio bisogno teatrale, ma non quell’opera intera che quelle esigenze e quel gusto avrebbe tradotto piú dall’interno in un’armonia e densità superiori.

* * *

Se la Didone rappresenta la scoperta ispirata ed esuberante della forza del «patetico», del rapporto recitativo-aria in forme di esplosione sin troppo canora, del modulo della «perplessità» (ma con eccessivo contrasto fra l’energia patetica di Didone e la troppo schematica e scoperta perplessità di Enea e senza l’aggancio essenziale della linea ondulata dell’azione e del percorso sentimentale alla risoluzione del lieto fine), e teatralmente si avvale di un piú aperto giuoco di contrasto di toni, di personaggi, di linguaggio, i melodrammi successivi, fra 1726 e 1730, nati nell’ambiente romano, ma con l’occhio sul centro teatrale veneziano (tra svolgimento delle proprie qualità e delle proprie esigenze e sollecitazioni di echi graviniani a nuovo livello e di elementi zeniani e corneilliani in direzione di dignità tragica), costituiscono soprattutto una fase di lento perfezionamento dello schema melodrammatico attraverso un esercizio meno impetuoso ed ispirato, una prova e riprova di espedienti e di accorgimenti tecnici di varia congenialità.

Sembra quasi che il Metastasio avverta la forza, ma anche il rischio della formula della Didone e riprenda pazientemente il suo lavoro ad un livello piú di attenzione che di ispirazione, pur cercando di offrire al suo pubblico opere vive ed efficaci, ma, ripeto, nettamente preparatorie e, a lor modo, sperimentali.

Cosí nel Siroe (1726) egli delineò accuratamente soprattutto il diagramma dei rapporti delle due coppie di innamorati in una dimensione che assume una certa fissità e canonicità per i drammi successivi e precisa la necessità del «lieto fine» non solo come esigenza di bienséance arcadico-razionalistica e risposta alla sua fondamentale fiducia provvidenziale ed idillica, ma come polo di tensione della linea melodrammatica. Che richiede, nello slargo finale del riconoscimento della razionalità della vocazione naturale del cuore, un termine sicuro alle vibrazioni e fluttuazioni patetiche altrimenti sconfinanti in un caotico sconvolgimento, una specie di saldo approdo che giustifica e attrae la lucida avventura patetico-drammatica entro limiti armonici di tensione e distensione, in analogia con il simbolo arcadico-petrarchistico del lieto porto che conclude la vicenda e giustifica lo stesso disacerbamento essenziale rappresentato dal canto.

Il valore positivo poetico-educativo dei tormenti e dei piaceri nel loro stretto rapporto dinamico e nella loro risoluzione edonistico-razionalistica viene qui non per caso riconosciuto come conclusione del dramma nel coro (voce di una saggezza collettiva e di una volontà superiore ai singoli individui) che invita alla pace finale e alla ricordata visione melodica-esistenziale di riconsiderazione delle pene, vive nell’avventura vitale-teatrale, alla luce del loro valore edonistico-ottimistico:

I suoi nemici affetti

di sdegno e di timor

il placido pensier

piú non rammenti.

Se nascono i diletti

dal grembo del dolor,

oggetto di piacer

sono i tormenti.[49]

Semmai con un eccesso di scoperta intenzione, ché poi, nelle opere piú ispirate mature, l’infoltirsi delle pene e delle vibrazioni pessimistiche sarà un effettivo nodo di poesia patetica dolorosa e l’acme della poesia metastasiana saranno gli addii desolati e struggenti, lo scomparire momentaneo, ma intenso delle speranze, e nel sostanziale clima idillico prevarrà il fascino poetico dei «palpiti», dei «sospiri»[50], delle esitazioni, delle pene (ciò che piú colpirà un Rousseau o un Leopardi).

Ma con il chiaro vantaggio (rispetto alla soluzione della Didone e alla ricaduta del tutto sperimentale del Catone in Utica) di una dimensione melodrammatica piú autentica e congeniale all’animus metastasiano e arcadico e al bisogno metastasiano e arcadico di una tensione rapportata alla distensione finale, di una misura armonica e conclusa rispetto al finale tragico e «scomposto», come sentimento e modulo compositivo, della Didone.

D’altra parte nel Siroe (considerato, piú che nel suo risultato piuttosto sbiadito, nella sua qualità di esperimento piú calcolato e correzione interna degli aspetti piú rischiosi della Didone) il recitativo si fa piú analitico e concatenato[51], cresce la capacità delle ricapitolazioni di situazioni antecedenti cosí cara a spettatori contemporanei come il De Brosses (mentre nella Didone, e pur con una sua efficacia di altro genere, la situazione era colta piú direttamente ed esclusivamente nel presente) e coerentemente cresce l’analisi dei sentimenti, la sottile meditazione-reazione dei personaggi di fronte al loro destino. E, ripeto, il tormento dei personaggi, e specie di Siroe (che resta il personaggio piú effettivamente lavorato malgrado la chiara nuova volontà metastasiana di commisurare tutti i personaggi a una tensione-base comune), si fa piú mosso e vario proprio perché piú assicurato alla sua risoluzione-tensione del lieto fine: e cosí certa quantitativa abbondanza di momenti tragici[52] non conduce tanto ad uno squilibrio e non risponde tanto ad un’aperta concessione al tragico (come avviene nell’esperimento diverso del Catone in Utica), quanto arricchisce convenientemente la linea melodrammatica in modi che esteriormente preparano le alternanze piú tipiche dei melodrammi maturi.

La tentazione del tragico eroico e del dramma della virtú «romana» (sull’esempio delle tragedie romane del Gravina, dello Zeno e della Morte di Catone dell’Addison[53]) si inserisce in questa fase piú sperimentale con il Catone in Utica (1728). Qui si moltiplicano le arie sentenziose-virtuose, i toni di ascendenza guidiana[54], la serie di battute a un solo verso per concisione e tensione di dialogo eroico-tragico, la aperta retorica della virtú romana[55] incarnata nell’«anima grande» e presuntuosa di Catone:

E Roma

non sta fra quelle mura. Ella è per tutto,

dove ancor non è spento

di gloria e libertà l’amor natio;

son Roma i fidi miei, Roma son io.[56]

Certo, nello schema generale non manca lo spiegamento del modulo amoroso-patetico con le due coppie di amanti e la stessa anima grande di Catone è «intenerita» da moti affettuosi e delicati, sicché poi nel recitativo, specie di Emilia, non mancano accenti e formule patetiche «in progresso»:

Mie perdute speranze,

rinascer tutte entro il mio sen vi sento...[57]

Se gli altrui folli amori ascolto e soffro,

e s’io respiro ancor dopo il tuo fato,

perdona, o sposo amato,

perdona; a vendicarmi

non mi restano altr’armi. A te gli affetti

tutti donai, per te li serbo e, quando

termini il viver mio, saranno ancora

al primo nodo avvinti,

se è ver ch’oltre la tomba aman gli estinti.[58]

Ma la ricchezza patetica è compressa dallo schema eroico-virtuoso e dall’orientamento della favola al suo esito tragico (che tentava addirittura l’«eccesso sublime» classicistico della morte sulla scena, poi ripudiato per il chiaro dissenso del pubblico[59]), e il rapporto fra eroico e patetico è tentato nel senso inverso di quello piú tipico del Metastasio, che si serve di elementi eroici come base di rilievo e di nobilitazione del patetico, come forma di dignità teatrale e piú alta verifica della «comune» vita del cuore in personaggi nobili e non comuni.

Ché l’elemento eroico non è assente dalla poetica e dalla poesia metastasiana e vi ha una sua funzione non solo retorica e velleitaria quando esso è attivo in funzione della linea poetica del patetico e rifluisce (in vari modi, sino alla forma piú lieve dell’eroismo «sportivo» dell’Olimpiade) concretamente in una elevazione generale (come un ideale «coturno» tragico) del tono entro cui circola l’incantevole voce del cuore e si snoda la favola della difficile felicità amorosa. Ma scade chiaramente (malgrado le velleità metastasiane e le velleità del suo tempo) in retorica fastidiosa e a volte sin ridicola (anche se sempre contraddistinta da una generale abilità drammatica e di linguaggio) quando pretende al predominio nel melodramma. Come meglio vedremo parlando dell’ultima fase del teatro metastasiano e della falsità di ogni interpretazione drammatico-eroica, sia nella vecchia posizione carducciana sia in recentissimi tentativi piuttosto ingenui.

Avvertimento comunque da fare già all’altezza di questo primo tentativo e da chiarire come retta interpretazione storico-critica che tien conto della realtà dei risultati e della stessa centrale impostazione di Weltanschauung e di poetica quale l’abbiamo già esaminata nei precedenti capitoli.

Allo stesso modo il debolissimo Ezio (dello stesso anno) implica la scelta di una strada equivoca nell’offerta di uno schema di macchinazione cortigiana (che altrove funzionerà con maggiore accortezza, ma quasi sempre con pericolo di dispersione e di complicazione) e nella sproporzionata aspirazione ad aperti toni tragico-virtuosi (la vicenda dell’«anima grande» «eguale solamente a se stessa»[60]) e bellicosi di chiara ascendenza guidiana[61] e portati sino ad insostenibili gradazioni di orrore[62].

Comunque nell’Ezio è scartato il finale tragico, come avverrà poi sempre sino all’Attilio Regolo escluso, e già nella Semiramide (1729) si dà piú adeguato impulso e rilievo allo scavo della psicologia amorosa che qui apre la via a essenziali procedimenti metastasiani, come la curva patetica che approda ai riconoscimenti e trasalimenti del cuore[63] e implica un’adeguata ricerca del verso e del discorso melodrammatico che scarta le battute frontali a un sol verso e giunge, con un eccesso poi scartato e ripreso solo molto tardi dall’ultimo Metastasio, all’intreccio di voci affannose e tormentate e perplesse entro un sol verso (addirittura cinque battute in un verso[64]).

E su questa via piú sicura e congeniale (subordinati la favola e gli espedienti dell’agnizione e degli equivoci, degli intrighi di corte, del profilo virtuoso e scellerato dei personaggi all’azione patetica culminante nel trionfo di ragione e natura, di virtú e piacere) nell’Alessandro nelle Indie (pure del 1729) si accresce coerentemente la felice misura omogenea dei personaggi centrali (piú al margine resta il falso protagonista, un Alessandro tutto statico nella sua magnanimità esemplare e impoetica), Poro e Cleofide, tutti vivi nella loro tensione amorosa complicata dalla gelosia dell’uomo: la gelosia si intreccia all’eroismo, il melodramma si imposta e si svolge limpido e ricco di nodi e pretesti vivi di azione patetica e questa comincia a sgorgare nuovamente, e in forme piú eleganti e semplici, dopo l’affermazione piú impetuosa e piú ibrida della Didone. E i toni melodico-amorosi trovano la loro resa piú sicura nel recitativo, capace di lucidissima ricapitolazione e di prefigurata azione[65] e che si snoda lungo e sinuoso per accogliere la densità e l’articolazione limpida del linguaggio del cuore, scartando sia le battute in un sol verso sia lo spezzettamento concitato eccessivo provato nel melodramma precedente e cercando un’unione piú organica con le arie[66].

Ma il risultato piú notevole di questa fase di prove e di tentativi (fra acquisti consistenti e soluzioni scartate o rimandate per il loro esito negativo) si ha nell’ultimo melodramma romano del 1730, l’Artaserse, che già raggiunge, se non la fusione e la circolarità poetica dei capolavori metastasiani, certo il loro livello di linguaggio poetico nelle parti piú decisamente patetiche.

Certo l’Artaserse ha chiari difetti di schematismo, di cadute goffe a questi legate[67], la perplessità si coagula eccessiva nel personaggio contorto di Artaserse, e il dramma è ancora lontano dalla medietas armonica dei prossimi capolavori. Ma già la favola esterna, se assunta nella sua funzione di sostegno della favola interna dei sentimenti e della loro espressione poetica (punto sempre da tener bene presente, ché il Metastasio è soprattutto il poeta del teatro dei sentimenti piú che dell’azione e questa vale ed è concepita da lui soprattutto in quanto sostiene e provoca la linea e la verità dei sentimenti), sorregge assai bene una forte densità di situazioni patetiche sia nella direzione amorosa sia in quella dell’amor paterno e filiale. E la tensione drammatica (soprattutto il dramma di Artabano, che vuole, machiavellico[68] appassionato paternamente, creare un trono al figlio contro la volontà di questo e giunge sino al margine della sua procurata rovina) non vive in astratte forme di eroismo e di tragicità fine a se stessa, ma si svolge in piú congeniali forme drammatico-elegiache e drammatico-patetiche, anima il giuoco intenso dei sentimenti analizzati e resi attivi, tormentati nelle spire della perplessità, delle esitazioni, dei rimorsi, sollecitati alle situazioni piú metastasiane degli addii (e qui addirittura l’opera è aperta da un «addio», con scoperta coscienza della forza di tale caratteristica situazione) e delle dolenti costatazioni pessimistiche[69], dalla chiara presenza del destino. Che, attraverso gli errori dei personaggi e della loro fragile umanità, avvolge e snoda la trama sino al suo esito pacificato (anche se ancora un po’ giustapposto alla inclinazione piú catastrofica dell’azione precedente) e soprattutto provoca la tormentosa e lucida vita dei sentimenti e la loro espressione patetico-melodica che di tanto ha superato l’impasto espressivo piú approssimativo della Didone.

Già esemplare per il vero tono metastasiano e per le possibilità poetiche del suo linguaggio è tutto il primo atto, in cui l’apertura patetica su di un lungo addio fra i due innamorati Arbace e Mandane («addio» portato lentamente all’acme emotiva-poetica sul tono della vibrazione di parole essenziali nello scavo sentimentale che affascinerà Leopardi: «Forse mai piú ti rivedrò; che questa / forse è l’ultima volta») avvia convenientemente, in accordo col clima doloroso e suggestivo di una notte di orrore e di pene evocata da una nota densa e sobria («questa notte funesta infra i silenzi e l’ombre»), una serie di scene ben disegnate e convincenti che presentano tutti i personaggi in azione e in vibrazione patetica sulla spinta di due delitti provocati dalla volontà di Artabano, ma le cui conseguenze a un certo punto gli sfuggono di mano: e divengono una forza superiore che coinvolge nelle sue spire tormentose tutti i personaggi e lo stesso Artabano. E la sua conversione da machiavellico spietato a vittima del destino è operata sottilmente puntando sulla sua qualità di padre, sulla sua particolare riserva di affetti che rende anche lui un «perplesso», un irresoluto straziato dalla difficoltà di salvare se stesso, la propria opera ma soprattutto quel figlio che lo affascina con la sua diversità generosa («Io l’amo appunto / perché non mi somiglia»), e scatena anche in lui quella vita psicologica piú schietta che è il vero regno della poesia metastasiana.

Tutta l’opera è certo fra le piú belle del poeta e non per caso (quel caso che secondo il Croce provocherebbe certe finezze frammentarie del Metastasio) nell’Artaserse anche l’accordo recitativo-aria (pur con margini di casi irrisolti e di arie troppo squillanti e canore o troppo logiche e fredde: ché si noti una volta per tutte come le arie sono molto spesso il punto difficile e debole del melodramma metastasiano) trova la sua consequenzialità piú organica e pura, la sua forza espressiva modulata in canto (ma in un canto che nasce dalla forza del recitativo e dalla sua rappresentazione di sentimento-situazione, quasi esaltazione suprema dell’ambizione arcadica di un finale coerente, ma piú rilevato), la sua ricchezza sobria di immagini che svolgono – al di là di ogni semplice «bravura» – il riferimento fantastico del nucleo sentimentale.

Come nel finale del primo atto, quando la disperazione di Arbace (il personaggio piú finemente realizzato nella sua generosità sulla base di una conveniente dignità e fierezza di guerriero) si risolve nella rappresentazione del mare crudele in tempesta a cui è consegnato «senza vele e senza sarte» mentre «freme l’onda e il mar s’imbruna» (e si noti la sobrietà suggestiva di queste immagini private di ogni colore eccessivo, condotte a una sorta di eletta popolarità e pur suggestive e creatrici di un tono fantastico, di una visione nitida e poetica). O come nella giustamente celebre aria di Megabize (innamorato infelice di Semira), nella scena sesta del primo atto, che non va letta a sé (secondo una tradizione errata), ma proprio nel suo fluido sgorgare dal recitativo che la sostiene e la slancia:

Megabize: Ah che il fuggir non giova. Io porto in seno

l’immagine di te; quest’alma, avvezza

d’appresso a vagheggiarti, ancor da lungi

ti vagheggia, ben mio. Quando il costume

si converte in natura,

l’alma quel che non ha sogna e figura.

Sogna il guerrier le schiere,

le selve il cacciator,

e sogna il pescator

le reti e l’amo.

Sopito in dolce oblio,

sogno pur io cosí

colei, che tutto il dí

sospiro e chiamo.

Mentre il recitativo trova la sua articolazione perfetta di espressione dialogico-sentimentale, come in questo esemplare incontro di battute fra le due donne (Semira, la sorella di Arbace, e Mandane, innamorata di Arbace, ma sorella di Dario e figlia di Serse che appaiono vittime di Arbace), nella scena sesta del secondo atto, sicurissima, specie nella prima battuta, per concisione e capacità di muovere ed evidenziare sottili e squisiti (e pur comuni e medi e aperti ad ogni lettore) affetti amorosi.

Semira:

Va’, sollecita il colpo;

accusalo spietata;

riducilo a morir; però misura

prima la tua costanza. Hai da scordarti

le speranze, gli affetti,

la data fe’, le tenerezze, i primi

scambievoli sospiri, i primi sguardi,

e l’idea di quel volto,

dove apprese il tuo core

la prima volta a sospirar d’amore.

Mandane:

Ah, barbara Semira,

io, che ti feci mai? Perché risvegli

quella, al dover ribelle,

colpevole pietà, che opprimo in seno

a forza di virtú? Perché ritorni

con quest’idea che ’l mio coraggio atterra

fra’ miei pensieri a rinnovar la guerra?

Lirica d’amore quale nessun poeta arcadico poté raggiungere nella sua tenue, ma cristallina densità, e, d’altra parte, inseparabile (al contrario di quanto parve al Croce che su quello sporadico e casuale risultato si era pur soffermato) dalla spinta generale di questo dramma di affetti e dalla sua favola teatrale.

L’estrema lucidità di brevissime battute dilemmatiche («Mio re, se reo mi credi, / perché vieni a salvarmi? E, se innocente, / perché debbo fuggir?»), la perfetta eleganza sensibile di volute del recitativo che in poche parole sigillano un motivo comune («lentamente ravvolga / i suoi giorni la Parca...»), la forza intera della lucidità e della passione («Amico, / se Arbace io non ritrovo, / per chi deggio affannarmi? / Era il mio figlio / la tenerezza mia. Per dargli un regno / divenni traditor. Per lui mi resi / orribile a me stesso; e, lui perduto, / tutto dispero e tutto / veggio de’ falli miei rapirmi il frutto»), la profilata nitidezza di immagini e canto delle arie (che tanto influirono sul linguaggio di poeti posteriori sino ad alimentarne alcuni momenti piú alti[70]) concorrono nell’altezza di tono di quest’opera, ponte di passaggio fra le prove precedenti e la zona della estrema maturità metastasiana, a cui essa offre il saldo terreno di un linguaggio e di una tecnica già in gran parte fermate (anche se nei capolavori l’esercizio progressivo continuerà fino alla armonia di ogni particolare costruttivo) e il segreto di una trama adeguata (pur con cadute, cigolii e suture meno perfette) al tessuto lirico-patetico che senza di quella non avrebbe trovato modo di esprimersi, ribadendo l’assurdità del giudizio di quanti vollero Metastasio poeta solo delle «arie» o lirico malgrado il suo singolare, ma essenziale impianto teatrale.


1 Opere, III, p. 658. Il consiglio era dato all’improvvisatore Vannini che «si lagnava che per colpa di un amore non era piú atto a far versi...».

2 Opere, II, p. 762.

3 Opere, II, p. 763.

4 Dove è il riflesso preciso della teoria dell’«illuminante» Gravina di cui abbiamo già parlato. In questo senso l’Origine delle leggi, legata all’opera giuridica del Gravina Originum iuris civilis libri tres, è la piú fedele espressione del gravinismo del Metastasio. Poi tale adesione venne spengendosi entro altri interessi, ma un certo fondo graviniano permane anche entro il conformismo religioso del Metastasio.

5 Opere, II, p. 765.

6 Opere, II, p. 759.

7 II giovane Leopardi collocava il Giustino vicino al Rinaldo del Tasso e alla Cleopatra dell’Alfieri come opere riprovate a cui tennero dietro grandi opere poetiche (Dedica al lettore della traduzione del secondo libro dell’Eneide in Poesie e Prose a cura di F. Flora, Milano, 1937, I, p. 619).

8 E si noti come il Metastasio ponesse al centro della sua tematica sentimentale proprio l’amore che Gravina e Zeno cercavano di espungere (o ridurre) dal loro mondo poetico «virtuoso» e nobile, cortigiano o civile, e riuscisse piú felice nel descrivere la mobile psicologia femminile, in cui è certo il piú vero precursore del Goldoni.

9 Opere, II, pp. 47-49.

10 Atto IV, scena III.

11

Or se ne pente, e se ne pente in modo,

meschina lei, che fa pietade ai sassi.

(Opere, II, p. 16).

12

Ed io sento piú doglia

del dolor di Sofia,

che non senta piacer del suo diletto:

ché trovar non si può piacer sí lungo

che brevissimo affanno eguagli in parte.

(Opere, II, p. 23).

13 Pace piú che redenzione e, se si vuole, versione arcadico-civile del miracolo cristiano, come si vede anche nell’Ode Pel Santo Natale il cui finale è ben significativo per le ragioni arcadico-civili dello stesso idillio metastasiano. Con l’arrivo di Cristo (l’«Autore della pace») la pace si diffonde «lieta» in ogni lato, e «il furor dell’aquile latine» depone l’armi «ed in aratri duri / cangia le scuri sanguinose e fiere, / e le guerriere spade e i fasci ostili / in falci umili».

14 Si noti, fra l’altro, come la stessa utilizzazione di strofe del Marino conduca ad esiti nettamente antibarocchi.

15 Si ricordi in proposito il già citato saggio di L. Ronga, La nascita del melodramma dallo spirito della poesia, e si ricordi come il melodramma secentesco si fosse venuto allontanando, per ricchezza spesso caotica di elementi comico-drammatici, per funzione di lusso scenografico e per abbondanza del «meraviglioso», dall’originale ed esile tessuto poetico rinucciniano. Il Metastasio volle riprendere – a nuovo livello di interessi storici e letterari e con piú forti aspirazioni di «tragedia» (che non mancavano però negli intenti del Rinuccini) – quell’origine piú pura e poetica di fronte al «teatralismo» impoetico dei libretti melodrammatici secenteschi. E perciò si smussa in parte l’ipoteca zeniana sull’origine del melodramma metastasiano che risale alla sua maggior complessità soprattutto – non unicamente – per ragioni interne e per una sua ricostituzione originale.

16

E, allor che dalle grotte oscure ed umide

uscia la Notte sovra il carro tacito

traendo seco la triforme Cintia,

godea mirar nell’onde il lume tremulo

e col ciel di chiarezza il mar contendere.

17 Opere, II, p. 852.

18

Fin quel nocchier dolente

che sul paterno lido

scherno del flutto infido

naufrago ritornò,

nel rivederlo placido

lieto discioglie l’ancore,

e rammentar non sa

l’orror che in lui trovò.

(Opere, II, p. 770).

19

Tornan le frondi agli alberi,

l’erbette al prato tornano:

sol non ritorna a me

la pace del mio cor.

(Opere, II, p. 769).

20

Le pene sono pimento del piacere:

Quell’alma severa

che amor non intende,

se pria non s’accende

non speri goder.

Per me son gradite

ancor le catene.

In mezzo alle pene

piú bello è il piacer.

Che pare un bando, a suo modo, contro la tematica dell’«alma severa» del Gravina e dello Zeno.

21 Il filtro classicistico funziona in accordo con la zona di ripresa tassesca che è pure essenziale nel Metastasio, come fece piú volte vedere il Momigliano nel suo commento alla Gerusalemme. Ma piú che della Gerusalemme la ripresa è qui dell’Aminta e dei madrigali. Linea Tasso-Metastasio che è ben significativa (a parte il Gravina) per il tentativo arcadico di riprendere il corso della poesia italiana all’altezza del secondo ’500.

22 Opere, II, p. 78.

23 Opere, II, p. 96.

24 Opere, II, p. 99.

25 Opere, II, pp. 104-105.

26 Si rilegga l’apertura col dialogo melodico-madrigalistico di Angelica e Adone (p. 121) o, a p. 133, l’ariosa parlata di Angelica che finisce (con l’ausilio della replica di Medoro) per risolversi piú chiaramente in un vero e proprio madrigale di tipo tassesco:

Non vedi il cielo

che arride pietoso ai nostri amori?

Ecco, dall’onde fuori

spunta la bianca luna e il ciel rischiara

col suo tremulo raggio, e, fin del bosco

fra gli intricati rami

penetrando furtiva,

a regolar gli incerti passi arriva.

Questo è anche il documento di una possibile antologia madrigalistica di questo primo Metastasio, interessante e piacevole, ma di cui non rimpiangiamo la perdita piú autonoma se si pensa all’uso interno che il Metastasio ne fece per la costruzione del suo canto-azione maturo. Ché sarebbe tesi errata quella di chi volesse individuare qui un Metastasio piú libero e poi coartato e striminzito dalla costruzione melodrammatica.

27 Opere, II, p. 119.

28 Mentre poi gli echi saranno accuratamente riassorbiti e per lo piú risolti in una generale ripresa di appoggio ad un linguaggio diventato a suo modo inconfondibile ed originale e mai – checché se ne dica – unicamente «librettistico».

29 Opere, II, p. 139.

30

Goder senza speranza,

sperar senza consiglio,

temer senza periglio,

dar corpo all’ombre e non dar fede al vero;

figurar col pensiero

cento vani fantasmi ad ogni istante:

sognar vegliando, e mille volte al giorno

morir senza morire,

chiamar gioia il martire,

pensare ad altri ed obliar se stesso,

e far passaggio spesso

da timore in timor, da brama a brama,

è quella frenesia che amor si chiama.

Dove si noti anche la versione piú «frivola» dell’amore rispetto all’impegno piú appassionato e sentimentale della tematica matura.

31 Opere, II, p. 143.

32 Si ricordi la lettera del 4 agosto 1734 pubblicata recentemente dal Fucilla (Nuove lettere inedite del Metastasio, in «Convivium», 1958, p. 586 ss.) in cui il Metastasio ricorda la Bulgarelli come colei che «m’inspirò».

33 Opere, I, pp. 64-65. Si ricordino poi su questa strada parodistica le arie satiriche del Crudeli:

Il vezzoso terremoto

con l’amabile suo moto

va ingoiando le città

ed il fulmine giulivo,

non lasciando un uomo vivo

va scherzando qua e là...

L’elefante innamorato

con maniera – non piú fiera,

ma gentile, ma vezzosa

la proboscide amorosa

spinge in seno al caro ben.

34 Opere, I, p. 57:

Anzi in questi [i recitativi] potrà

cantar con quella lingua che le pare,

ché allor com’Ella sa,

per solito l’udienza ha da ciarlare.

35 Opere, I, p. 56:

Il libretto non deve esser capito;

il gusto è ripulito,

e non si bada a questo:

si canti bene e non si badi al resto.

36 E per il linguaggio rozzo, composito con espressioni plebee e dialettali si rileggano le arie di barocco degradato nella ignoranza del rozzo impresario poeta:

Fingi meco rigore

sol per prenderti spasso;

so ch’hai tenero il core,

bell’ostreca d’amore, e sembri un sasso.

Dove si noti l’abilità con cui il Metastasio sa usare le risorse della satira linguistica e dunque le capacità di questo scrittore che scelse poi la via della elegante semplicità per scelta volontaria e ispirata e non per aridità personale e convenzionale.

37

Nibbio: Non importa: mi basta che un poco

si ricordi di un suo servitore.

Dorina: Speri, speri ché forse il mio core

il suo merto distinguer saprà.

Nibbio: Ah! signora, la sola speranza

non mi serve, non giova per me.

Dorina: Eh! signore; ma troppo s’avanza:

si contenti per ora cosí.

Nibbio: Ih! Ma questa mi par scortesia:

tanta flemma soffrir non si può.

Dorina: Oh! che fretta! Bastar gli potria

di parlarne vicino al Perú.

Nibbio: Uh! Ma tanto tenermi nel foco,

con sua pace, mi par crudeltà.

Dorina: Con sua pace, non è crudeltà.

Ma mi spieghi: qual è il suo pensiero?

Nibbio: Un affetto modesto e sincero.

Dorina: Me ne parli, ma quando sto in ozio.

Nibbio: Ho paura che il nostro negozio

mai concluso fra noi non sarà.

Dorina: Non disperi. Vedremo. Chi sa?

(Opere, I, pp. 65-66)

38 «Trionfando finalmente per tutto sul fuoco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvvisamente il cielo, si dileguano le nubi, si cangia l’orrida in lieta sinfonia» (Opere, I, p. 53).

39 Atto I, sc. 2a (e poi anche I, sc. 17a: «vil rifiuto dell’onde, / io l’accolgo dal lido; io lo ristoro / dalle ingiurie del mar; le navi e l’armi / già disperse io gli rendo, e gli do loco / nel mio cor, nel mio regno...».

40 La deliziosa scena 3a del II atto, di grande effetto teatrale e sul confine di un comico che doveva singolarmente piacere agli spettatori del tempo sul pernio della volubilità femminile e della invincibilità dell’amore.

Osmida: Occupa solo Enea il tuo cuore.

Didone: Taci, non rammentar quel nome odiato.

È un perfido, è un ingrato,

è un’alma senza legge e senza fede.

Contro me stessa ho sdegno,

perché fin’or l’amai.

Osmida: Se lo torni a mirar, ti placherai.

Didone: Ritornarlo a mirar? Per fin ch’io viva,

mai piú non mi vedrà quell’alma rea.

Selene: Teco vorrebbe Enea

parlar, e gliel concedi...

Didone: Enea? dov’è?

Selene: Qui presso

che sospira il piacer di rimirarti.

Didone: Temerario! Che venga.

41

Selene: Dunque supponi, Arbace,

che scelga a suo talento il caro oggetto

un cor che s’innamora?

Nella scuola d’amor sei rozzo ancora.

(Atto I, sc. 11a)

Battuta importante, nella sua sfumatura ironica, per il carattere di «civiltà» del motivo amoroso, della cui forza nativa e istintiva il Metastasio si preoccupò sempre di farsi banditore lucido e persuaso. La saggezza arcadica consiste anzitutto nel riconoscimento della forza radicale dei sentimenti e del regno del cuore. Motivo poi condotto sino alla piú esplicita sentenziosità (con quello che di banale essa comporta) in certe arie, come quella di chiusa della scena 10a dell’atto II:

Ogni amator suppone

che della sua ferita

sia la beltà cagione:

ma la beltà non è.

È un bel desio che nasce

allor che men s’aspetta;

si sente che diletta

ma non si sa perché.

42 Atto I, scena 1a.

43

Enea: Piange Selene!

Selene: E come

quando parli cosí, non vuoi ch’io pianga?

Enea: Lascia di sospirar. Sola Didone

ha ragion di lagnarsi al partir mio.

Selene: Abbiam l’istesso cor Didone ed io.

Enea: Tanto per lei t’affliggi?

Selene: Ella in me cosí vive,

io cosí vivo in lei,

che tutti i mali suoi son mali miei.

(Atto I, sc. 9a)

44 Atto II, sc. 9a.

45 Atto I, sc. 7a.

46

Cosí strane venture io non intendo,

pietà nel mio nemico,

infedeltà nel mio seguace.

Ah! forse a danno mio

l’un e l’altro congiura.

Ma di lor non ho cura.

Pietà finga il rivale,

sia l’amico fallace:

non sarà di timor Jarba capace.

(Atto II, sc. 6a)

47 Atto III, sc. 4a.

48 Questa forma ricorre in bocca ad Enea nella scena 1a e 17a del I atto, nella scena 7a del II atto, e in bocca a Didone nella scena 11a del II atto e nella scena 10a del III atto. Ma è in Enea che essa assume il suo significato piú vero in relazione alla sua sorte fondamentale di contrasto fra amore e dovere.

49 E già alla fine del I atto il «lieto fine» prefigura la sua necessità:

Fra l’orror della tempesta

che alle stelle il volto imbruna,

qualche raggio di fortuna,

già comincia a scintillar.

Dopo sorte sí funesta

sarà placida quest’alma,

e godrà, tornata in calma,

i perigli rammentar.

50 Ed è nel Siroe che si affacciano, anche se sporadiche, alcune anticipazioni di tipici moduli metastasiani patetici:

Oh quante volte, oh quante

ei sospirò per te!

(Atto I, sc. 5a)

51 Si vedan subito, all’apertura del dramma, i primi recitativi di Cosroe.

52 Con abbozzi di recitativo tragico che arieggiano da lontano nella situazione dell’anziano Cosroe persino qualche accento del Saul:

Dunque temer degg’io

gli amici, i figli? In ogni tazza ascosa

crederò la mia morte? In ogni acciaro

la minaccia crudel vedrò scolpita?

(Atto I, sc. 12a).

E qualcosa di saulliano ha qualche altra battuta di Cosroe:

Pace non spero.

Ho nemici i vassalli,

ho la sorte nemica; il Cielo istesso

astri non ha per me che sian felici;

ed io sono il peggior dei miei nemici.

(Atto III, sc. 5a).

E i «pur troppo» si infittiscono al di là di quanto avveniva nella Didone. Anche un’espressione alfieriana dell’Agamennone è presente nel Siroe («Ma per qual mano?», Atto III, sc. 7a).

53 La tragedia dell’Addison era stata tradotta dal Salvini nel 1714 e pubblicata a Firenze nel ’15. Ma il Metastasio non poté che ritrarne uno stimolo generico, ché l’andamento della tragedia addisoniana è molto diverso da quello del melodramma metastasiano.

54 V. ad es. (Atto I, sc. 4a) la parlata di Cesare:

Chi piú fido di me? Spargo per lei

il sudor da gran tempo e il sangue mio.

Son io quegli, son io, che su gli alpestri

gioghi del Tauro, ov’è piú al ciel vicino,

di Marte e di Quirino

fé risonar la prima volta il nome.

Il gelido Britanno

per me le ignote ancora

romane insegne a venerar apprese.

55 Le affermazioni di «romanità» come taumaturgica affermazione di eroismo («perché tuo figlio sono e son romano», «sono ad un’alma romana / nomi ignoti timore e viltà»), che ritorneranno a proliferare insopportabili nel Regolo, aprono una via retorica che da una parte rifluisce nella tragedia gesuitica (estremismo eroico assurdo per allontanamento da azioni concrete ripreso, attraverso i drammi gesuitici e le imitazioni gesuitiche del padre Monaldo, nell’infantile Pompeo in Egitto del Leopardi) e d’altra parte, con ben altro valore, nell’Alfieri piú oratorio, specie nella Virginia. La ridicolizzazione e vanificazione estrema di questo luogo comune par ritrovarsi in un sonetto del Belli, La Befana, in cui la signora rifiuta il dono troppo misero del cavalier servente appellandosi appunto alla sua «romanità». E si veda la nota del Vigolo con gli accenni al Brahms di Landormy e alla Rome dello Zola per il ridicolo appello alla propria romanità anche da parte di persone del volgo romanesco (I sonetti di G.G. Belli, a c. di G. Vigolo, Milano 1953. III, pp. 2488-2489 n.). È tanto vero che si tratta di temi retorici che certe espressioni passano quasi immutate e come usufruite con sicurezza di effetto entusiasmante per tutto il Settecento classicistico fino al Monti, partendo da spunti testiani e chiabrereschi attraverso il rafforzamento orgoglioso del Guidi, l’amplificazione filicaiana e la trasmissione metastasiana e frugoniana. Espressioni in cui campeggia la «virtú» o «libertà latina» (magari nell’accordo pessimistico: «la fuggitiva libertà latina» nella prima parlata di Catone nel Catone in Utica) fino al sonetto montiano del 1776, Passaggio di Clelia nel Tevere («l’invitta libertà latina»).

56 Atto II, sc. 2a.

57 Atto I, sc. 11a.

58 Atto I, sc. 8a.

59 Mentre l’Algarotti vedeva in quella morte «cantata» sulla scena una riprova delle avvilenti concessioni della poesia alla musica («Dover di Vinci in mi bemolle or ora / con lunghi trilli e florida cadenza / sua morte gorgheggiar Porzio Catone», Opere, Venezia, 1791, I, p. 19). Il Metastasio cambiò il finale giustificando il cambiamento in rapporto al «genio delicato del moderno teatro, poco tollerante di quell’orrore che faceva il pregio dell’antico» (in nota a p. 1399 del I vol. delle Opere). Ma in realtà quel «genio delicato» corrispondeva al suo personale, se si ricordan le sue Osservazioni sul teatro greco.

60 Atto III, scena ultima.

61 Si rilegga la battuta di Ezio nella scena 2a dell’Atto I svolta entro formule tipicamente guidiane (i «gelidi trioni», e «ecco l’armi, l’insegne e le bandiere») e con la guidiana prosopopea dell’io eroico, anche se in un recitativo tanto piú limpido e articolato delle parlate guidiane.

62 Si veda il monologo di Fulvia (Atto III, sc. 12a) che ricorre, per un accrescimento dell’orrore tragico, all’adeguazione alle «tragedie» del mito greco: che è procedimento consueto del Metastasio in simili occasioni.

63 V. atto I, sc. 8a:

Scitalce: Come! e tu non ravvisi

Semiramide in Nino? A me la scopre

il girar de’ suoi sguardi

placidi al moto, il favellar, la voce,

la fronte, il labbro, e l’una e l’altra gota

facile ad arrossir; ma, piú d’ogn’altro,

il cor, che al noto aspetto

subito torna a palpitarmi in petto...

Atto II, sc. 10a:

Semiramide: Come balza in petto

impaziente il cor! Piú non poss’io

con l’idol mio dissimular l’affetto.

64 Atto III, scena ultima:

Scitalce: Perché?

Mirteo: Resti.

Ircano: Si senta.

Sibari: Udite.

Semiramide: (Oh Dio!)

65 Si veda il piano della battaglia di Gandarte alla prima scena del II atto.

66 Si vedano ad esempio le scene 14a e 15a del II atto.

67 Certe arie frettolose e troppo «logiche» (ad esempio, quella finale della scena 11a o quella della scena 13a dell’atto primo) son legate ad un eccesso di schematismo che è pure corrispettivo della tensione a sintetizzare l’analisi della situazione e del sentimento. E cosí avviene nella scena 9a dell’atto II in cui le due donne, Semira e Mandane, svolgono a contrasto le loro richieste di pietà e di punizione. Nell’Artaserse il De Brosses ritrova chiare tracce dello Stilicone di Thomas Corneille e del Serse di Crébillon, ma egli stesso, prevedendo le giuste riserve che si devon fare sull’uso tutto strumentale delle «fonti» nel caso specifico del Metastasio, avvertiva che pur essendo un gran plagiario «ricrea con gran arte tutto ciò che ha preso».

68 Dimensione machiavellica che corrisponde a certo realismo pessimistico, se si vuole, un po’ spicciolo, ma sincero nell’esperienza metastasiana, e non privo di efficacia contribuendo a limitare i pericoli dell’«anima bella» e certa prevalenza dolciastra di virtú premiata e vittoriosa. Si vedano almeno le battute di Artabano, nella sc. 2a dell’atto II:

È l’innocenza, Arbace,

un pregio che consiste

nel credulo consenso

di chi l’ammira; e, se le togli questo,

in nulla si risolve. Il giusto è solo,

chi sa fingerlo meglio, e chi nasconde

con piú destro artificio i sensi sui

nel teatro del mondo agli occhi altrui.

La conclusione è sempre diversa, ma questi moti piú realistici e pessimistici la rendono meno insipida e scolastica.

69 Come la discussione fra Artabano e Arbace nella scena 2a del II atto.

Arbace: E questa vita, o padre,

che mai la credi?

Artabano: Il maggior dono, o figlio,

che far possan gli dei.

Arbace: La vita è un bene,

che, usandone, si scema: ogni momento

ch’altri ne gode, è un passo

che al termine avvicina, e dalle fasce

si comincia a morir quando si nasce.

70 Si ricordi almeno l’aria (atto II, scena 15a), da cui il Monti ricavò l’«attonito pastor» della celebre comparazione omerica fra il campo dei greci e la notte stellata contemplata dal pastore. Anche se poi l’aggettivo «attonito» è una delle parole tematiche dello «stupore» visionario del Monti. E certe parole come «bramare», o il «palpitare» del cuore, o il giro e l’avvio del dubitativo con i «forse», i «se», («S’io mertai, signore, / qualche premio da te...»), i «chi sa», l’affollarsi dei dimostrativi a slancio delle interrogazioni («Quei soavi costumi, / quell’amor, quelle prove / d’incorrotta virtú, erano inganni / dunque di un’alma rea?») o la forza di accordi sentimentali («i miei disperati affetti»), di mosse di recitativo patetico («veder recise / verdeggiar le mie speranze, estinti / su l’aurora i miei dí...») costituiscono tutta una riserva preziosa di linguaggio e di stimoli poetici che, spesso direttamente, a volte nella mediazione del Monti piú elegiaco e sentimentale, conservarono la loro carica suggestiva fino al Leopardi.